Il Podere

LA STORIA DI OMOMORTO

Le case della località Omomorto prendono il nome da un episodio avvenuto nel 1281, che ebbe il suo epilogo in quella località, ed è collegato al castello di Romena distante poche migliaia di metri.

Il Podere Omomorto

Fino dal 1008 abbiamo notizie che il castello di Romena era turrito e nobilissimo abitandovi il conte Guido Alberto dei marchesi di Spoleto, signore poi nel 1055 di quasi tutte le Corti del Casentino.
Spentasi questa famiglia con Ermellina, moglie di Guido IV conte di Modigliona, i Guidi – imparentatesi per matrimonio – divennero i leggittimi successori.

Per lungo tempo il castello di Romena, nel territorio del Falterona, rimase indiviso fra i vari Guidi, finchè nel 1217 l’eredità di Guido Guerra e della moglie Gualdrada, fu divisa fra i figli Guido VII (ramo dei conti di Modigliana e di Poppi), Marcovaldo, conte di Dovadola, Aghinolfo conte di Romena e di Monte Granelli, Tegrimo conte di Porciano.

Il castello di Romena toccò a Aghinolfo, e da lui iniziò la discendenza dei conti Guidi da Romena: dalla moglie Giovanna Pallavicini ebbe due figli, Guido Novello e Simone (ramo di Battifolle).
Ad essi furono soggetti Ragginopoli, Lierna, Partina, Moggiona, Mandrioli, Cetona, San Giusto, Montemignaio, Porciano, Castel Castagnaio, San Leolino, Quota e altre terra e castelli.

IL FALSARIO

Al tempo dei fratelli Alessandro, Guido Pace e Aghinolfo, abitava a Romena Mastro Adamo da Brescia abile falsificatore, il quale aveva trovato il modo di falsificare anche la moneta fiorentina, “il fiorino” d’oro, per conto dei suoi padroni Guidi di Romena.

Questo “Mastro Adamo” è sempre stato chiamato “da Brescia”, ma una pergamena del 1277 parla (li un certo “magistro Adam de Anglia, familiare comitun de Romena” per cui sembrerebbe che avesse origini inglesi, magari bresciano di adozione.

La moneta fiorentina falsificata aveva “tre carati di mondiglia” (cioè tre carati di una lega di vile metallo) idonei a mantenere inalterato nel tempo l’oro ed il peso. Al rovescio della medaglia era abilmente coniata l’immagine di San Giovanni che , comunque, ammoniva chiunque da contraffazioni (San Giovanni non vuole inganni).

Orbene, nel 1281 Maestro Adamo andò a Firenze a far compere portando con sè i falsi fiorini coniati, forse anche per metterne alla prova il riconoscimento. Accadde che, mentre si trovava in casa di tali Anchioni in via Borgo San Lorenzo, prese fuoco la casa e alcuni fiorini si strussero rivelando la falsificazione.
Mastro Adamo vistosi scoperto fuggì a dorso di mulo intento a ritornarsene a Romena ma, poco distante dalla Consuma là dove la vecchia via Casentinese che passava dallo Spino di Pomponi incontrava l’altra via che proveniva da Londa, fu raggiunto dagli armigeri della Signoria di Firenze, direttamente lapidato sul posto e arso vivo.

È questa una leggenda con sfondo di verità: una macìa di sassi è presente tutt’ora a ricordare questo fatto, macìa fattasi sempre più grande col tempo perchè era usanza per i viandanti di gettari altri sassi su questo cumulo. E mentre Adamo il falsario per conto dei conti di Romena pagò con la vita, gli istigatori Guidi rimasero impuniti perchè troppo potenti.

Macia di sassi

L’episodio è ripreso da Dante Alighieri nel XXX canto dell’Inferno:

O voi che senza alcune pene siete,
E non so io perchè nel mondo gramo,
Diss’egli a noi, guardate ed attendete
Alla miseria di Maestro Adamo:
Io ebbi vivo assai di quel ch’io volli,
E ora lasso! Un gocciol d’acqua bramo.
Li ruscelletti che dai verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno
Facendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi e non indarno;
Chè l’immagine lor vie più m’asciuga
Che’l male ond’io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
Tragge cagion dal luogo ov’io peccai,
A metter più li miei sospiri in fuga.
Ivi è Romena là dov’io falsai
La lega suggellata dal Battista,
Perch’io il corpo suso arso lasciai
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
Di Guido, d’Alessandro o di loro frate,
Per fonte Branda non darei la vista!

Io son per lor tra si fatta famiglia:
E m’indussero a battere li fiorini
Ch’avean tre carati di mondiglia.

A proposito di questo episodio è bene ricordare chi erano gli Anchioni.

Dal testamento di Durante di Corrado risulta che nel 1279 possedevano varie case e torri nell’attuale via di Borgo San lorenzo in Firenze. E fu proprio in una di queste case che nel 1281 tennero consiglio i popolani in armi che volevano rovesciare l’oligarchia dei Grandi. Sta di fatto che in quelle case e in quegli anni fu scoperto un deposito di fiorini falsi che si diceva provenissero da Siena per minare le finanze della repubblica fiorentina.

Certo è che i fatti relativi al falsario Mastro Adamo da Brescia e i falsi fiorini ritrovati in gran quantità proprio subito dopo il 1281 potrebbero essere legati da un’unica matrice.

Gli Anchioni, ritenuti cittadini onorevoli, non furono accusati di aver falsificato moneta fiorentina; nel 1309, “Bartolus de Anchiunibus de sextu de Portae Domus” fu, addirittura, eletto Priore della Signoria, carica riconfermatagli nel 1316.

A poca distanza dall’uccisione di Adamo da Brescia in località “Omomorto” (otto anni dopo), si svolse la famosa battaglia di Campaldino fra la lega Guelfa fiorentina e i Ghibellini aretini.

LA BATTAGLIA DI CAMPALDINO

Il 6 maggio 1289 i Guelfi fiorentini, comandati da messer Amerigo Narbona decisero l’attacco ad Arezzo, per rivendicare la sconfitta di Montaperti, passando “per Casentinum” e così l’esercito fiorentino si radunò presso la Badìa a Ripoli il 2 giugno 1289, attraversò l’Arno alla Nave a Rovezzano e si diresse verso Pontassieve e per “male vie” puntò per la Consuma. Erano presenti anche, sia il famigerato cavaliere Corso Donati, che i poeti Dante Alighieri e il gaudente Cecco Angiolieri, probabilmente come feditori e non a cavallo, data la loro giovane età (Dante aveva 24 anni e l’angiolieri 29 anni).

Il 7 giugno, i Guelfi si fermano presso il Monte al Pruno in vicinanza dell'”Ommorto”; comincia il saccheggio e la devastazione delle terre e delle case del conte Guido Novello, allora Podestà di Arezzo, iniziando probabilmente proprio dall’Ommorto. Due giorni dopo riparte per Borgo alla Collina dove si accampa per l’ultima volta, prima di affrontare i nemici, sabato 11 giugno 1289, il giorno di San Barnaba.

Frattanto l’esercito Ghibellino aretino, informato delle mosse dei fiorentini, con alla testa il Vescovo Guglielmino degli Ubertini esce da Arezzo dirigendosi verso il Casentino per incontrare i Guelfi, e il giorno 10 i due eserciti erano già schierati di fronte.

Il Vescovo Guglielmino si reca a pregare San Donato (protettore di Arezzo) nella vicina chiesa di Certomondo e poi, col suo cavallo si dirige verso i Guelfi lanciando il guanto di sfida.

La chiesa di Certomondo o “Cerromondo” è annessa al convento francescano; la chiesa ed il monastero furono fondati da Guido Novello e Simone da Battifolle (Ghibellini) nel 1262 per i Frati Minori in ringraziamento della vittoria a Montaperti del 1260. Strano a dirsi, vide poi la disfatta dei Ghibellini nel 1289 a Campaldino.

L’indomani mattina all’alba, nella piana di Campaldino, inizia la battaglia: gli arcieri, i balestrieri e i feditori aretini, protetti dalla cavalleria, si lanciano verso i fiorentini , i quali, anzichè accettare battaglia, arretrano al centro creando una pericolosa sacca dove l’esercito Ghibellino verso circondato e vinto con grande e reciproco massacro.
L’anziano Vescovo Guglielmino degli Ubertini anzichè fuggire preferì la morte in battaglia, facilmente riconosciuto dalla sue insegne.
Anche Buonconte da Montefeltro perse la vita nella battaglia, come lo stesso racconta nel V° canto del Purgatorio dantesco.

Che il Vescovo Guglielmino non fosse stato uno stinco di santo è attestato dai suoi attacchi a tutti e a tutto, perfino ai monaci Camaldolesi. Il 20 maggio 1260, Papa Alessandro IV ordinò al Vescovo di restituire “i calici, i libri e il denaro” sottratti in Casentino!

I fiorentini per festeggiare la vittoria, eressero vent’anni dopo, una chiesa dedicata a San Barnaba, nell’attuale via Guelfa a Firenze.